Le varianti del virus SARS-CoV-2: quando un fenomeno naturale e atteso può diventare una notizia
Perché i virus variano?
Infezioni · 4 gennaio, 2021
Mauro Pistello
Professore ordinario di Microbiologia e Microbiologia clinica, Università di Pisa
Direttore Unità operativa complessa Virologia, Azienda ospedaliero-universitaria pisana
Per vivere bisogna adattarsi. Questa semplice frase, che sembra la conseguenza di un fatto sfortunato, è una delle leggi fondamentali che ha permesso a molte delle specie viventi di sopravvivere al susseguirsi dei millenni. Anzi, si pensa che l’incapacità all’adattamento, sia alla base dell’estinzione per cause naturali. Che si tratti di un fenomeno naturale o provocato dall’uomo, il cambiamento ci permette di reagire a fronte di nuova situazione e di ristabilire una posizione di equilibrio con l’ambiente e di fitness.
I meccanismi di adattamento sono diversi nei diversi gruppi tassonomici ma sottendono in gran parte alla comparsa di mutazioni introdotte in modo casuale nel patrimonio genetico della specie. In genere, queste mutazioni si verificano nella fase di sintesi dell’acido nucleico durante la fase di duplicazione cellulare. Più una cellula replica e un organismo si riproduce, maggiori sono le capacità di adattamento. Le mutazioni sono casuali, e le condizioni ambientali e di fitness determineranno se queste avranno successo (la mutazione è acquisita stabilmente, "fissata", perché vantaggiosa per l'organismo mutante), se saranno eliminate (perché causano effetti deleteri all'organismo) oppure se saranno anonime ("neutre", perché prive di effetti evidenti sul mutante, né in senso migliorativo né in senso peggiorativo).
La velocità con cui le mutazioni sono selezionate è diversa nei vari phyla: è lenta negli organismi che presentano cicli vitali lunghi e generazioni ben distanziate nel tempo, è invece molto più rapida in batteri e virus, che si replicano molto più rapidamente. Non è però solo questione di velocità: negli organismi superiori è presente un sistema di "correzione di bozze" (proof-reading) durante la fase di sintesi degli acidi nucleici. Se è stato introdotto un nucleotide sbagliato, quindi una mutazione, il correttore di bozze entra in azione, limitando gli errori di incorporazione a poche unità per decina di migliaia di basi. La fedeltà nella copiatura degli acidi nucleici aumenta proporzionalmente con la complessità dell’organismo, con il risultato quindi che mammiferi, piante e altre specie sono geneticamente stabili, mentre batteri e virus sono molto più tolleranti verso gli errori e più plastici. Se per i batteri si può parlare di tolleranza, per i virus si tratta invece di un meccanismo ricercato e fortemente voluto. A riprova di ciò, molti virus con genoma a DNA potrebbero benissimo utilizzare le DNA-polimerasi cellulari per sintetizzare il proprio acido nucleico. Preferiscono invece sintetizzare le proprie polimerasi, che sono molto più processive ma anche molto meno accurate delle loro controparti cellulari. Non solo, presentano sistemi proof-reading molto meno efficienti e in molti casi addirittura assenti. Il risultato è che il tasso di errore è di un nucleotide per migliaia di basi e, per alcuni virus con genoma a RNA, di una mutazione ogni cento basi. I virus quindi variano, e molto. La generazione di varianti virali contenenti una o più mutazioni rispetto al progenitore è quindi un fatto atteso, scontato e perseguito.
Perché i virus variano?
Se ripercorriamo la storia naturale dell’infezione virale e tralasciamo le variazioni che rendono più stabile la particella virale nell’ambiente esterno, ci rendiamo conto che i virus devono adattarsi continuativamente alle caratteristiche mutevoli dell’ambiente in cui si vengono a trovare. Per esempio, un virus che infetta per via respiratoria dovrà, in prima battuta, superare le barriere anatomo-funzionali dell’apparato (muco e movimento ciliare), quindi resistere a una formidabile trama di cellule ad attività fagocitaria presenti nel tratto respiratorio superiore e inferiore, a svariate sostanze ad attività antimicrobica, a una risposta adattiva indotta dal sistema immunitario che non dà tregua al virus, ecc. Le mutazioni, come abbiamo detto casuali, conferiscono un vantaggio (e sono quindi selezionate positivamente) quando incrementano la fitness del virus attraverso il miglioramento della capacità replicativa, della persistenza nell’ospite e della sua trasmissibilità. Per sommi capi, nell’ambito di questi tre ambiti, le varianti (o mutanti) virali che emergono presentano:
- Aumentata affinità di legame tra antirecettore e recettore virale, migliore capacità di impiego di proteine cellulari necessarie alla replicazione e di contrasto dei meccanismi di resistenza delle cellule alla replicazione virale.
- Modificazioni dell’antirecettore, che impediscono il legame degli anticorpi neutralizzanti che bloccano il legame recettore-antirecettore e che erano stati prodotti contro il virus progenitore, migliorate capacità di diffusione e replicazione in siti corporei limitrofi e organi distali o, ancora, resistenza ad antivirali conseguita attraverso modificazioni dei siti bersaglio dei farmaci stessi.
- Maggiore stabilità della particella nell’ambiente esterno, aumentata attività replicativa a livello di mucose e porte di ingresso dalle quali il virus può essere più facilmente trasmesso.
Quanto e come i virus variano dipende poi dal virus stesso e, ancora, dall’ambiente in cui i virus si trovano. Alcuni, come ad esempio il virus della immunodeficienza umana (HIV) e virus epatite C, producono letteralmente milioni di varianti virali al giorno in un individuo infetto, selezionate principalmente per la loro capacità di eludere la risposta immune e per resistere al trattamento terapeutico. Altri, come alcuni tipi di virus influenzali e i coronavirus, producono e selezionano varianti capaci di resistere all’ambiente esterno e di infettare individui di specie diversa, altri ancora, per esempio i rhinovirus, i virus del comune raffreddore, privilegiano varianti che si replicano nel tratto respiratorio superiore e che sono quindi più facilmente trasmissibili. Gli esempi riportati sono ovviamente delle grossolane semplificazioni perché una o più mutazioni si riverberano in uno o più ambiti e possono avere molteplici effetti, ma è indubbio che nella sua straordinaria dinamicità e plasticità ogni virus ha una propria frequenza mutazionale che, attraverso la selezione operata dall’ambiente esterno, consente al virus di interagire finemente con l’ospite per conseguire un livello di parassitismo che non ha eguali tra le varie specie.
Si noti come non è mai stata citata la selezione di varianti più patogene. Questo infatti non rientra nei programmi del virus, che non ha alcun interesse a generare varianti che “facciano più male” all’ospite. È chiaro però che, se queste replicano in modo più efficiente in alcune cellule, come ad esempio le varianti di HIV che replicano nei linfociti TCD4+ o che sono resistenti al trattamento terapeutico, allora possono aggravare un quadro patologico che, ancora una volta, è determinato in gran parte da fattori e dalla risposta dell’ospite.
Il caso delle varianti di SARS-CoV-2
Che il virus SARS-CoV-2, agente eziologico della malattia COVID-19, muti non è di per sé una notizia e per un virus con così rapida diffusione è un fatto scontato. Ciò che è più rilevante e che non viene sottolineato con la giusta enfasi (perché non fa notizia), è che i coronavirus (incluso SARS-CoV-2) mutano più lentamente rispetto ad altri virus a RNA, come influenza e HIV. I coronavirus hanno infatti una propria RNA-polimerasi dotata di un sistema di correzione di bozze che riduce gli errori che si verificano durante la replicazione virale (https://www.nature.com/articles/d41586-020-02544-6). Ad oggi, il livello di mutazioni introdotte sembra essere circa la metà rispetto ai virus influenzali e addirittura di un quarto rispetto a HIV. Volendo dare degli elementi oggettivi di valutazione e comparazione, il ridotto tasso di mutazione di SARS-CoV-2 è davvero una bella notizia, se si considera che per i virus influenzali è necessario ripreparare un vaccino ogni anno e che per l'HIV non vi è alcun vaccino.
SARS-CoV-2 ha accumulato mutazioni dall'inizio dell’epidemia. La conseguente comparsa di varianti potrebbe spiegare la sorprendente diffusione di casi nel mondo e, in base ad analisi genetiche eseguite su migliaia di genomi virali, su recrudescenze e repentini aumenti di incidenza che si sono verificati in diverse aree geografiche di vari continenti. La maggior parte di queste varianti contenevano mutazioni nella proteina Spike, l’antirecettore virale. Studi di laboratorio e su animali hanno dimostrato che molte di queste varianti aumentano la capacità del virus di infettare cellule di polmoni e tratto respiratorio (https://www.nature.com/articles/s41586-020-2895-3), spiegando, anche se mancano ancora evidenze certe, che questo si possa tradurre in una maggiore capacità diffusiva dell’infezione, anche se questo non sembra influire sulla gravità delle infezioni osservate nei pazienti. A supporto di queste ipotesi vi è l’osservazione, come nel caso della variante americana D614G emersa a marzo, che espansioni e contrazioni di questa variante coincidono con le varie ondate epidemiche che si sono susseguite nella stessa area geografica. La mutazione D614G sembra inoltre conferire un importante vantaggio al virus perché si è diffusa in tutto il mondo in meno di un mese (https://www.cell.com/cell/fulltext/S0092-8674(20)30820-5).
L’aumento della trasmissibilità del virus non è una buona notizia, ma le cose avrebbero potuto essere peggiori. Un recente studio suggerisce che questa variante, emersa in Europa, non è probabilmente meno suscettibile all'immunità indotta dal vaccino rispetto al ceppo che ha avuto origine in Cina, ma che ha capacità replicative 10 volte superiori rispetto al ceppo ancestrale nelle cellule epiteliali nasali primarie, un sito importante per la trasmissione da persona a persona. Lo stesso studio ipotizza che D614G modifichi la conformazione della proteina Spike consentendo al virus di infettare le cellule in modo più efficiente, ma anche di renderlo più vulnerabile agli anticorpi neutralizzanti (https://science.sciencemag.org/content/early/2020/11/11/science.abe8499).
Ha fatto molto più clamore, invece, la notizia riportata su tutte le fonti di informazione, di una variante di SARS-CoV-2 circolante nel Sud-Est dell’Inghilterra. Questa variante, chiamata SARS-CoV-2 VUI 202012/01 (Variant Under Investigation, year 2020, month 12, variant 01) è stata individuata ai primi di dicembre 2020 a seguito di un inaspettato aumento dei casi di COVID-19 in quell’area geografica. Analisi retrospettive dimostrano che la nuova variante VUI-202012/01 è comparsa a settembre 2020 in Kent, Inghilterra, per poi diffondersi rapidamente, soprattutto in persone con età inferiore a 60 anni. La variante inglese è oggi diffusa a livello globale con casi segnalati in Europa, incluso Italia, Africa, Asia e America del Nord. La variante è definita dalla presenza di una gamma di 14 mutazioni, che comportano modifiche degli aminoacidi e tre delezioni. Alcune di queste mutazioni si ritrovano nella proteina Spike a livello del dominio di legame del recettore (RBD), tra queste la N501Y (ritrovata ma con origine indipendente anche in ceppi Sud Africa e Australia), la P681H e la delezione nella posizione 69/70.
Ciò che rende interessante e degno di rilievo la variante VUI-202012/01 è il deciso aumento della potenzialità di trasmissione rispetto ai precedenti virus circolanti. Rapporti preliminari del Regno Unito mostrano un aumento stimato della trasmissibilità compreso tra il 40% e il 70% (aggiungendo 0,4 al numero di riproduzione di base R0, portandolo a un intervallo da 1,5 a 1,7) e il fatto che la delezione nella posizione 69/70 possa alterare le performance di alcuni test diagnostici molecolari che usano il gene S (che codifica per la proteina Spike) come target. Va detto comunque che la maggior parte dei test usa target multipli, per cui l’impatto di questo riarrangiamento sui test diagnostici non dovrebbe essere significativo. Non è ancora chiaro, invece, se VUI-202012/01 possa essere associata a cambiamenti nella persistenza nei soggetti infetti, nella gravità della malattia clinica, nella risposta anticorpale o nell'efficacia del vaccino.
Ovviamente va tenuta alta la guardia: l’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di condurre studi epidemiologici e virologici per indagare sugli attuali e inevitabili ulteriori cambiamenti nella funzione del virus in termini di sequenza genetica, infettività e patogenicità. La sorveglianza, serrata e continua, dovrà svolgersi attraverso il sequenziamento di routine dei virus SARS-CoV-2 circolanti e la condivisione dei dati di sequenza a livello internazionale.
In conclusione, quindi, tutti i virus, incluso SARS-CoV-2, mutano nel tempo. La maggior parte di queste mutazioni non hanno un beneficio diretto per il virus o possono anche risultare sfavorevoli. È necessario tuttavia un attento monitoraggio attraverso la conduzione di indagini complesse, costose, che richiedono la continua collaborazione tra gruppi di ricerca a livello mondiale oltre che il supporto finanziario e infrastrutturale da parte degli organi di governo. Solo così si potranno capire le implicazioni di queste varianti in termini di presentazione clinica, diagnosi, trattamento e sviluppo di vaccini per SARS-CoV-2.